La Suprema Corte (Cass. 25 settembre 2018, n. 22728) ha sentenziato che l'animale, dal punto di vista civilistico è un “bene di consumo”; la decisione è stata poi seguita da Trib. Ravenna 13 agosto 2020, n. 656), che ha affermato il doversi applicare alla vendita di animali domestici la normativa prevista dal Codice del Consumo, di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in luogo di quella codicistica di cui all’ art. 1496 c.c., in tema di vendita di animali.
Cambia qualcosa? Sì, in caso di lamentati “difetti” dell’animale
Ipotesi animale venduto come "cosa". La garanzia per i “vizi” della “cosa” venduta, di cui agli artt. 1490 ss. c.c., attribuisce al compratore la facoltà, ai sensi dell’ art. 1492 c.c., di domandare la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo, con obbligo per il venditore ex art. 1494 c.c., in ogni caso, di risarcire il danno sofferto dal compratore, se non prova di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa.
Il successivo art. 1495 c.c. prevede, con riguardo ai termini ed alle condizioni per l’azione, la prescrizione della stessa in un anno dalla consegna del bene e la decadenza dal diritto alla garanzia ove il vizio del bene non venga denunciato dal compratore entro otto giorni dalla scoperta dello stesso. Nessuna presunzione è prevista in tema di onere probatorio della esistenza dei vizi già al momento della consegna, gravante pertanto sul compratore, mentre si ritiene gravare sul venditore l’onere di dimostrare che il vizio è intervenuto successivamente (Cass. 17 maggio 2004, n. 9330).
Ipotesi animale venduto come bene di consumo, ecco cosa cambia.
La disciplina prevista dal Codice del Consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206) prevede a carico del venditore, ai sensi dell’ art. 129, “l’obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita”, dovendosi intendere in particolare per “conforme” il bene che, ai sensi del 2 comma, lett. c), presenti “la qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo…”, ovvero, ai sensi della successiva lett. d), sia idoneo all’uso particolare voluto dal consumatore e comunicato da questi al venditore. In caso di lamentato difetto di conformità, ai sensi dell’art. 130, comma 2, il consumatore avrà diritto al “ripristino della conformità” del bene mediante riparazione o sostituzione, ovvero, in via residuale ai sensi del successivo 7 comma, una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto.
A tal riguardo, l’art. 132, comma 1, fissa il più ampio termine di due anni dalla consegna del bene per i “vizi di conformità” e conseguente possibilità del “consumatore” di rivalersi sul venditore, a condizione peraltro (comma 2) che questi abbia denunciato al venditore il difetto entro il termine di due mesi dalla scoperta; il terzo comma della stessa disposizione pone inoltre una presunzione di esistenza del difetto del bene al tempo della consegna, qualora il difetto si manifesti entro sei mesi dalla stessa.
Secondo la Cassazione, dunque, in caso di vendita di un animale “difettoso”, l'acquirente può, per il periodo di addirittura due anni e due mesi, riconsegnarlo al venditore per la sostituzione con un altro (nel processo citato, tuttavia, il compratore aveva fortunatamente scelto la riduzione del prezzo per il risarcimento del danno, avendo ritenuto “impossibile”, ai sensi dell’art. 130, comma 7, lett. a), la “riparazione” e la “sostituzione” del “bene” animale, nel caso specifico un cane).
Come si individuano i beni di consumo che soggiacciono a questa norma? Dal disposto del primo comma dell’art. 128 del Codice stesso, che infatti, nel dettare l’ambito di applicazione del Capo I, dedicato alla “vendita dei beni di consumo”, equipara alla vendita tutti i contratti “comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre”. Deve quindi trattarsi di beni mobili suscettibili di “fabbricazione” o di “produzione”, per i quali sia configurabile e quindi pretendibile l’esatto adempimento per uno scopo.
Ma come fa un animale a essere riconducibile a un bene prodotto per un uso? Forse un cane o un gatto, o anche un cavallo, adottati per compagnia e affetto non lo sono; ma per gli animali acquistati da lavoro, da concorso o da corsa, si può individuare la casistita di beni “di specie” caratterizzati da una specifica mansione di impiego o di scopo.
I cavalli da corsa ad esempio sono definiti prodotti. La loro nascita, riferito ai trottatori, non è naturale. Nascono per inseminazione artificiale e sono allevati per correre, non per affetto. Ci sono cavalli venduti a svariate decine di migliaia di euro, da lavoro o concorso, pacificamente, per uno scopo di “uso”, tanto è che terminato quell'uso, purtroppo, i proprietari se ne sbarazzano per sostituire quel bene di “consumo” con un'altro che continui a produrre il tipo di lavoro desiderato.
Dal punto di vista animalista, considerare il bene “cosa venduta” o “bene di consumo” appare arduo, anche se queste norme sono fatte per proteggere il commercio dalle frodi.
Il principio richiamato dall’art. 1496 c.c., vendita di animali, è sicuramente più tutelante per l'animale stesso, che in quanto essere senziente, ha dei diritti in proprio, per noi quello assoluto della vita, specialmente applicato agli animali domestici non destinati alla produzione alimentare. Il principio opposto però, animale come bene di consumo, tutela meglio gli acquirenti di "scopo" dalle possibili frodi, che ahimé, sono assai comuni nella compravendita di cavalli.
A tale proposito il Codice di Consumo, ad opera della L. 11 settembre 2020, n. 120, che ha convertito il D.L. 16 luglio 2020, n. 76, e dalla previsione nel titolo II, dedicato alla “Responsabilità per danno da prodotti difettosi”, del comma 2-bis dell’art. 115, definisce “produttore la persona che veicola sul mercato prodotti agricoli del suolo o dell’allevamento, della pesca e della caccia, rispettivamente l’agricoltore, l’allevatore, il pescatore ed il cacciatore”, poiché infatti la disposizione appare riferita ai soli animali da allevamento tradizionalmente intesi, e si prefigge di disciplinare unicamente l’ipotesi in cui l’animale venduto provochi un danno a terzi.
La norma animale "bene di consumo" non appare quindi applicabile agli animali d'affezione tradizionali, ma sicuramente a quelli allevati e venduti a caro prezzo per lavoro, concorso o corsa.